martedì 15 gennaio 2013

9 + 1 Nove modi più uno di far politica: cinquant'anni di posizioni politiche dell'architettura e dell'urbanistica.

Affiancamento, identificazione e linguaggio tramite cui, nella seconda metà del secolo scorso, l’architettura ha interferito con le sfere della politica, o forse il contrario. Di questo racconta la mostra dal titolo “9 + 1 Ways of Being Political: 50 Years of Political Stances in Architecture and Urban Design" in programma sino al prossimo 25 Marzo al MoMA, museo di arte moderna a midtown Manhattan (NYC) all’interno della sezione Architecture and Design. L’esibizione occupa il terzo piano del museo articolandosi in un percorso che ci mostra le varie modalità, precisamente nove più una, tramite cui l’opera di architetti ed urbanisti ha avuto risonanza politica. Il curatore, architetto portoghese, Pedro Gadanho e la vice curatrice Margot Weller pongono dunque al centro dell’attenzione il contesto sociale della polis al fine di descrivere non tanto personalità o movimenti architettonici, bensì l’attitudine politica e la pratica culturale di artisti, designer, fotografi.
L’argomento non è nuovo se pensiamo a come il potenziale politico in architettura sia stato uno dei punti di forza delle avanguardie nei primo ventennio del 1900, ma è altresì vero che dagli anni ’60, a partire dalle neoavanguardie sino alle tematiche più contemporanee, sia rinato tale legame politico inteso come vero e proprio segno di rilevanza sociale dell’architettura. 

In totale le sezioni sono dieci e ognuna di esse, oltre i contenuti d’esposizione, offre ai visitatori delle locandine gratuite nelle quali sono descritti individualmente i punti di dibattito, quasi a voler comporre, al termine della visita, un insieme di manifesti riassuntivi dei movimenti sociali entro cui si compenetrano architettura e politica dal 1961 sino ai giorni nostri. Passando da un allestimento all’altro e seguendone la cronologia, capiamo in che modo all’architettura è stato concesso di essere “politica”, termine inteso proprio come aggettivo della stessa. 


1. Posizioni radicali: 1961-1973
Utopie urbanistiche di cambiare la società in rapido mutamento tramite nuove forme di città modello e di tecnologia (vedi Archigram in UK e Archizoom in Italia);

2. Narrazione e distopia: 1963-1978 
Reazione al fallimento di ideali politici e rifugio nell’architettura di scenario e finzione (vedi Aldo Rossi, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Superstudio);

The Tower (The Fall) (1980) by Bernard Tschumi
Utopie Dynamit (1976) by Gunter Rambow


3. Decostruzione: 1975-1999 
Affermazione della sperimentazione architettonica sugli intenti sociali durante il decostruttivismo e, nel momento in cui si esaurisce l’innovazione, resta la promessa politica di una decostruzione e destabilizzazione della norma (vedi Thomas Maine Metamorphosis); 

4. Paesaggi del consumismo: 1969-2004 
Il consumismo e le logiche commerciali che fanno di città, spazi pubblici e architetti nuove icone di brand e la contestuale critica a tale atteggiamento (vedi Skidmore Owings & Merril National Commercial Bank); 

5. La gestione dello spazio pubblico: 1978-2011 
L’utilizzo e l’appropriazione dello spazio pubblico come luogo d’aggregazione sociale, di performance artistico-architettonica e storicamente sito di propaganda politica (vedi Vito Acconci, Will Alsop masterplan per Bradford, West8); 

6. Iconoclastia e critica delle istituzioni: 1964-2003
La critica alle committenze istituzionali sottoforma di un’architettura iconoclastica provocatoria che può essere utilizzata come arma politica (vedi Hans Holleins, Diller+Scofidio); 

7. Realizzare la trasparenza: 1967-2011 
Trasparenze materiche e trasparenze di messaggio: utilizzo del vetro nell’architettura post moderna. Gli spazi interni diventano esposti, sinonimo di trasparenza sociale. Sperimentando materiali traslucidi e tecnologie, come lo screen-printing e gli schermi interattivi, gli architetti smaterializzano le superfici e ne fanno mezzo di comunicazione (vedi Jean Nouvelle Cartier Foundation – Paris, Kazuyo Sejima&Associates, Seiyaku women's dormitory – Kumamoto City, Japan); 

8. Occupare le frontiere sociali: 1974-2011
Ai limiti dell’architettura: strategie progettuali e coinvolgimento sociale come soluzione del degrado urbano. La pianificazione urbana partecipata è un mezzo, ugualmente politico, per riportare il senso di comunità e di aggregazione anche nelle aree dalle condizioni più critiche (vedi Àlvaro Siza SAAL); 

9. Interrogare la casa: 1971-2003 + La politica della domesticità: 2002-2011 
Le ultime due installazioni, in particolare nella sezione finale maggiormente applaudita, al centro dell’attenzione sta il cuore centrale e nucleo base primario di architettura e rapporti sociali: l’abitazione. Vengono esposti i principali cambiamenti di abitudini del vivere la casa nell’ultimo quarantennio e la recente acquisizione da parte del MoMA di IKEA Disobedients, performance dello studio madrileno Andrés Jaque Architectos, è una provocatoria ma interessante critica all’impatto culturale che l’ideologia domestica di IKEA “basso costo e facile da montare” sta avendo nella cultura della casa. Nel video proposto, i cittadini di Long Island City si oppongono all’uniformazione delle proprie case e le utilizzano per promuovere attività comunitarie di aggregazione. La “disobbedienza” di questa performance ci fa riflettere su un tema che non è affatto pretestuoso: fino a che punto una standardizzazione di processi e metodi può essere realmente personalizzabile ed esprimere davvero un’intima domesticità? 

Ciò che in me è nato spontaneo dopo aver visitato la mostra, così ricca di opere di diverso linguaggio poste tutte sullo stesso piano di importanza (video, immagini, registrazioni audio, grafica) è stato riflettere su come l’architettura nel suo insieme possa veicolare necessità, pensieri e propositi della società che ne fa uso. Quindi come la politica, in questa accezione sociale, trovi forma nell’architettura. La mia opinione è che quindi “politico” esprima il “sociale” e ne sia un sinonimo.


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